Maramures, un viaggio nel far east d’Europa

Iniziamo a essere stanchi io e mio figlio Niccolò, di 10 anni, dopo aver percorso a piedi quasi tutti i villaggi dell’alta valle del Cosau. Davanti a noi, a un paio di chilometri in linea d’aria, si erge la grande chiesa ortodossa di Breb, molto più imponente del villaggio stesso, costituito da fattorie raggruppate lungo una disastrata strada sterrata. Dietro il villaggio, situato su una dolce dorsale collinare, i rilievi scendono di nuovo nella valle del Mara per poi risalire all’orizzonte e confondersi con il profilo dei Monti Ignis. Siamo nel cuore del Maramures, la regione più settentrionale della Romania, a pochi chilometri dal confine ucraino, ma a decine di anni nel passato, tra villaggi di legno e ritmi di un mondo contadino ormai scomparso in quasi ogni altro luogo d’Europa. Il rumore di zoccoli che si avvicinano ci fanno voltare e sorridere nel vedere che un carretto di legno, lungo e stretto, con due assi come fondo, dei pali di legno come spalletta e con quattro ruote da automobile, si sta avvicinando. Un giovane robusto contadino guida i due vivaci cavalli da lavoro, aggiogati al carretto e decorati da pennacchi e nastrini rossi attaccati alla criniera e alla fronte. Dietro a lui una giovane donna vestita con la camicia bianca e con i capelli coperti da un fiorito fazzolettone, un bambino e un anziano, anche lui con una camicia bianca, un gilet nero aperto e un minuscolo cappellino sulla testa, si aggrappano ai pali laterali e cercano di ammortizzare i rimbalzi delle ruote sul fondo sconnesso. Non è il primo carro che vediamo passarci accanto e superarci al trotto, qualche volta carico di contadini, qualche volta quasi sommerso sotto un enorme carico di fieno, ma questa volta la stanchezza della camminata prevale e proviamo a chiedere un passaggio e, forse perché si vede che non siamo rumeni, forse perché hanno compassione di mio figlio, si fermano e ci fanno cenno di salire. E così, sbattuti e strapazzati ben bene dal trotto veloce dei cavalli, superando gruppi di contadini che tornano verso casa a piedi con la falce fienaia e il rastrello di legno sulle spalle e oltrepassando decine di pagliai, mute sentinelle di pascoli che non conoscono il rombo del trattore, arriviamo in un baleno al paese, dove ci fanno scendere a terra e ci salutano con un vigoroso “drum buna”.
Questo è uno dei tanti incontri che si fanno sulle strade dei villaggi di legno del Maramures, dove ogni casa è un piccolo universo di autosufficienza. Da una parte l’abitazione, spesso senza acqua corrente o con un piccolo lavandino e basta, dall’altra la stalla che contiene una vacca, uno o due cavalli, il fienile, il porcile, il pollaio e la rimessa, non per le automobili, ma per i carretti di legno.

Ogni casa è circondata da una staccionata di legno che inizia da un grande portale d’ingresso di legno, intagliato con figure di animali, croci, stemmi o disegni più o meno complessi e con sempre indicato il nome della famiglia e l’anno in cui è stata eseguito il lavoro. Questa opera monumentale, che nel passato serviva anche a visualizzare il rango e la ricchezza dei proprietari, serve anche a un altro scopo; tenere lontani gli spiriti maligni. Essa rappresentava la barriera simbolica tra il mondo esterno sconosciuto – immaginate voi le buie foreste carpatiche di qualche secolo fa – e la sicurezza della casa. Questo mondo degli spiriti ritorna anche nel culto dei morti, dove i rituali da osservare sono codificati e ometterne anche uno solo potrebbe comportare il ritorno dell’anima come fantasma o addirittura come vampiro. La cerimonia, che non è facile osservare, si compone di tre fasi; la separazione dal mondo dei vivi, la preparazione al viaggio e l’ingresso nell’altro mondo. La persona morente chiede il perdono della propria famiglia e dei vicini e tutti sono tenuti a obbedire ai suoi ultimi desideri, mentre le donne piangono e improvvisano poesie rimate declamanti la personalità e le imprese compiute dal defunto. Tre giorni dura la veglia del morto, dopo la quale si celebra un pasto commemorativo a base di pane a forma di nodo e uova rosse che vengono offerte sia a chi partecipa al funerale che ai passanti. Il lutto dura un anno ancora, durante il quale i parenti stretti non possono partecipare a cerimonie nuziali o balli e le donne vestono di nero. Anche il matrimonio è un evento molto importante nella cultura della regione al punto che se una persona in età di matrimonio muore prima di essersi sposata, viene addirittura tenuto un Matrimonio del Morto.
Un’altra caratteristica della regione sono le chiese di legno, comuni un po’ in tutta l’Europa Orientale, che annoverano delle costruzioni così particolari che otto di esse sono entrate nella lista dei siti patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Questa particolare architettura deriva dalla proibizione di costruire chiese in muratura che gli ungheresi cattolici imposero ai rumeni ortodossi nel lontano 1278. La maggior parte delle chiese fu ricostruita dopo l’ultima invasione dei tartari, nel 1717, spesso con un ampio porticato davanti all’entrata e con dei campanili altissimi, qualche volta abbelliti da dei pinnacoli angolari. I tetti sono tutti ricoperti da scandole, piccole tegole di legno, che sono sistemate con infinita pazienza da dei carpentieri specializzati, appollaiati vertiginosamente su di uno speciale sedile attaccato alle travi del tetto. La struttura di ogni chiesa è costituita da robuste travi di quercia, incastrate con perfette giunzioni, senza l’ausilio di nessuna vite o collante, e spesso è decorata, per tutto il suo perimetro, da una corda scolpita nel legno, segno dell’unità della chiesa e dei suoi fedeli.
Nelle zone più rurali della Romania la religione ortodossa è molto sentita e, nonostante siano sorte recentemente chiese di altre confessioni, la partecipazione alla messa domenicale di gran parte della popolazione di ogni villaggio è un evento da non perdere, specialmente se è una di quelle messe celebrate all’aperto che accolgono centinaia di fedeli sul prato antistante alla chiesa che, alla fine della funzione si trasformano in pic-nic collettivi, dove vengono offerti a tutti i partecipanti, in cambio di una piccola offerta, i sarmale, gli involtini di cavolo ripieni di riso e carne, un ciambellone dolce e l‘onnipesente tuica, la grappa a base di prugne.

Ma la bellezza di queste chiese è soprattutto all’interno, dove si sta procedendo ad un accurato, anche se lungo, restauro delle pitture murali, risalenti in gran parte al XVIII secolo da parte di artisti locali, che riuscirono a combinare la tradizione bizantina con un gusto più popolare. Una delle più vivide raffigurazioni è quella nella chiesa di Poienile Izei dove, con dovizia di particolari, sono raffigurati decine di peccatori torturati dai demoni, mentre una processione di uomini e donne viene condotta nell’enorme becco infuocato di un uccello che rappresenta l’inferno.
Più solare è l’aria che si respira tra le costruzioni di legno del nuovo monastero di Barsana, abbellite da vasi di geranio e vialetti fioriti di rose e piante aromatiche, e che vanta la più alta chiesa in legno d’Europa; quasi 60 metri che svettano verso il cielo con incredibile grazia. Sorella Irene, una giovane suora carina, nonostante il severo abito che indossa, ci viene a chiedere se siamo noi gli italiani che hanno scritto sul libro dei suffragi di recitare una preghiera per il Monastero di San Serafino di Pistoia. Ci racconta, in un buon italiano, della piccola comunità di suore che si sta dando molto da fare in questo luogo, in cui 15 anni fa non c’era niente. Adesso le sue strutture possono ospitare anche 50 pellegrini e centinaia di persone possono assistere alla messa all’aperto tra le sue aiuole fiorite. Mentre ripulisce lo stoppino delle candele di cera con le sue mani brunite dal lavoro all’aperto, ci chiede se siamo ortodossi; no, non lo siamo, ma apprezziamo lo stesso la serenità del luogo, gli rispondo, mentre gli regalo un santino che ho conservato da una visita del Monte Athos.
A poche decine di chilometri, nella cittadina di Viseu de Sus, si può vivere un’altra avventura nel tempo percorrendo la valle del fiume Vaser, sull’ultima ferrovia a scartamento ridotto rimasta funzionante in Romania. Il treno è utilizzato dai boscaioli per spostarsi nel cuore delle montagne Maramuresului, dove barattano distillato di prugne e sigarette con il formaggio dei pastori e lavorano in condizioni pericolose e primitive per tagliare enormi faggi e abeti sui ripidi fianchi dei monti. Il piccolo convoglio ora è spinto da locomotori diesel, ma fino a qualche anno fa e ancora oggi, la domenica o in altri giorni a richiesta di un numeroso gruppo di turisti, una locomotiva a vapore del 1955 sbuffa nella valle, tra volute di fumo e fuliggine e a passo di lumaca, per le numerose e spesso incomprensibili fermate. Il tragitto si può percorrere anche a piedi e così, tra poveri villaggi e case di legno costruite su strade fangose, dense foreste spesso nascoste da nuvole a mezza costa, e l’inconfondibile fischio e ritmo di un treno a vapore, sembra di essere capitati in mezzo a un set di un film sul far west, anzi sull‘ultimo far east d’Europa.