Albania,
un paese così lontano, così vicino
Voskopoja?
Kembe? Il viso del pastore albanese oscilla tra lincredulo
e il compiaciuto quando nel nostro stentato albanese cerchiamo di
chiedere se la strada è giusta e otteniamo solo queste parole
in risposta altre nostra domanda. Voskopoia è il nome del
paese dove dobbiamo arrivare tra almeno tre giorni, kembe significa
gambe, ed è il fatto che abbiamo intenzione di arrivarci
a piedi che lo rende perplesso anche se ci vede ben equipaggiati,
forse anche troppo, visto che qui i pastori non hanno altro che
indosso i loro vestiti e un bastone.
Ma cosa ci facciamo in una delle zone più remote dellAlbania,
tra le catene del Tomorit e dellOstravica, lungo la vallata
del Lumi Tomorrezes, che assomiglia ad un enorme fiumara solcata
da un rivolo di acqua tiepida, in mezzo a colline deturpate da enormi
calanchi e fenomeni franosi lunghi anche centinaia di metri, seguendo
labili tracce di zoccoli di mucche e pecore?
Tutto era iniziato dalla voglia di andare a scoprire lAlbania,
questa nazione così vicina, ma così distante, che
difficilmente invoglia il turista per molte ragioni, tra cui una
certa diffidenza con la popolazione che qui in Italia spesso è
protagonista di episodi di cronaca e per la nostra ignoranza, nel
senso di non conoscenza, anche per mancanza di guide o materiale,
sulle ricchezze culturali e naturalistiche della nazione.
Avevo adocchiato una zona nella parte meridionale del paese, quella
che sembrava la meno percorsa dalle strade e poi mi ero procurato
due cartine in scala 1:100.000 presso lIstituto Geografico
Militare di Firenze disegnate quando lAlbania era italiana,
cioè nel 1943!
Con questo materiale avevo adocchiato il percorso più diretto
per unire due dei luoghi che sembravano i più importanti
della regione: Berat, la città delle mille finestre,
che conserva ancora oggi latmosfera delle città balcaniche
dinfluenza turca, con i suoi minareti svettanti nel cielo,
e Voskopoie, che nel 1750 era la città più importante
dei Balcani, con le sue 24 chiese, biblioteche, accademie e con
i suoi 30.000 abitanti. In 5 o 6 giorni di cammino avremmo dovuto
percorrere circa 60 chilometri in line daria, valicare almeno
due catene montuose di 2000 metri daltezza, tutto seguendo
mulattiere segnate su una carta di 60 anni fa.
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Linizio
di questavventura dal paesino di Kapinova, che abbiamo raggiunto
dopo un traballante viaggio a bordo di un furgon partito da Berat
e pieno di gentili e curiosi albanesi che ci chiedevano stupiti
cosa andassimo a fare al loro paese, non è dei più
incoraggianti; il caldo del pomeriggio, la salita lungo un dedalo
di sentieri sotto il sole, la mancanza di punti di riferimento
ci fa subito desistere e rimandare al giorno dopo la partenza
della nostra camminata e ci fermiamo in una radura presso le case
più periferiche del paese. La nostra presenza non passa
inosservata e subito alcuni bambini iniziano ad osservarci incuriositi
mentre prepariamo la cena con le nostre pentole e forellini. Ben
presto viene una signora, la maestra del paese, che nel suo italiano
da autodidatta appreso dai libri e dalla televisione ci fa un
sacco di domande e ci invita a dormire a casa sua, non capendo
la nostra intenzione di bivaccare sotto le stelle. I bambini ci
lasceranno solo a notte fonda, quando compaiono le prime lucciole
e le madri li richiamano, distogliendoli da unattrazione
che non capita spesso.
Lindomani, rincuorati e con il fresco ripartiamo seguendo
sempre il sentiero più battuto in salita e iniziamo a incontrare
pastori, che si spostano a dorso di mulo o a piedi con i loro
greggi, e poi li spaccapietre del Tomorit che a gruppi di tre,
quattro persone vivono in misere capanne nelle praterie brulle
della montagna, sopra i 1500 metri e lavorano in condizioni incredibili
sfruttando una zona di roccia calcarea, che si sfalda in sottili
lastre, che vengono usate per rivestimenti e come tegole.
Larrivo alla Teqe, una sorta di moschea costruita sul crinale
del Tomorit, ci presenta un'altra sorpresa. Siamo in uno dei luoghi
sacri per i musulmani albanesi, che sono prevalentemente aderenti
alla setta dei Bektashi, una corrente religiosa che si rifà
allordine dei dervisci sorta in Turchia nel XV secolo, più
tollerante e più aperta anche alle altre religioni, e che
proprio sulla cima più altra della montagna ospita la tomba
del suo fondatore. Ogni agosto pellegrini provenienti da tutta
lAlbania si ritrovano qui e dopo i sacrifici rituali di
montoni e galline salgono fino al piccolo mausoleo a oltre 2400
metri daltezza da cui, mi raccontano, di notte si vedono
persino le luci di Bari. La Teqe è un edificio moderno
che contrasta con la solitudine del luogo, ma funzionale per chi
fa un viaggio fin quassù anche se una strada sterrata rende
il viaggio accessibile a tutti. Cè un bagno, una
sala per parlare, delle stanze dove dormire e una attrezzata cucina.
Il custode, un uomo disponibile di una certa età, ci offre
dello yogurt appena fatto e un caffè turco, mentre con
suo figlio, che parla un poco dinglese, riusciamo ad avere
un po di informazioni e ad intavolare una breve conversazione.
Il giorno dopo passiamo dal sonnacchioso villaggio di Gjerbes
che, con le sue strade sterrate, la piazza mezza allagata da un
torrente non regimato, un po di sacchetti e detriti di plastica
abbandonati e vacche e galline a giro, ricorda più un villaggio
rurale indiano che uno europeo, ma il gestore del piccolo bar
dove ci fermiamo si fa in quattro per trovarci dello yogurt fresco
e delle uova, mentre troviamo più difficoltà ad
acquistare un chilo di riso. Lungo il fiume Tomorreses, ci accorgiamo
che, confrontando la mappa, nulla è cambiato dal 1943.
I villaggi hanno più o meno lo stesso numero di case e
le mulattiere di allora sono le stesse che percorrono i pastori
di oggi, unico tocco di modernità, qualche antenna e parabola
di televisore, il che spiega anche come mai le ragazzine che sincontrano
parlano qualche parola ditaliano e persino di spagnolo:
è perché guardiamo le telenovelas!,
ci rivelano. Ci fermiamo per bivaccare davanti ad una casa abbandonata
e in breve tutti i ragazzi del villaggio ci circondano incuriositi,
seguiti anche dai genitori che si vengono ad accertare della nostra
presenza e ci invitano a casa loro descrivendoci i pericoli della
notte allaperto e la presenza di feroci cani, ma anche stavolta
non vogliamo creare troppo disturbo, la notte è serena
e tiepida ed è troppo bello contemplare le stelle prima
di addormentarsi. La mattina dopo alcuni bambini ci portano acqua
fresca, un ciotolo di latte appena munto, un bottiglione di yogurt
e tre uova che ricambiamo con dei pacchetti di biscotti e un faleminderit,
il grazie albanese, dal profondo del cuore.
Lattraversamento dellOstravica, guardando la mappa,
sembrava più complicato viste le linee di dislivello che
prefiguravano dei versanti più ripidi. In realtà
le pendici sono degli ampi pascoli dove più greggi si muovono
impercettibilmente diffondendo per le vallate il concerto armonico
dei loro campanacci. I pastori le seguono pacatamente cantando
canzoni ancestrali, mentre alcuni guidano giù i muli con
i contenitori del latte e altri sistemano i recinti degli ovili
e le loro piccole casette ovali dal giaciglio fatto di felci secche.
Spesso il sentiero è solo una labile traccia che si segue
solo con il buonsenso della via più agevole o per il colore
leggermente diverso dellerba, poi finalmente arriviamo al
passo di Vashes, a circa 2100 metri da cui contempliamo le montagne
dei Balcani che si stendono davanti a noi per centinaia di chilometri:
quelle sono le montagne della Macedonia!, Quelle
sono i Gramos in Grecia e quello laggiù è il profilo
inconfondibile del massiccio del Timfi! Lo riconoscevo bene
perché cero stato solo una settimana prima!. Più
avanti le montagne della Bulgaria, le terre dei pastori Valacchi,
le scorrerie di Ali Pasha di Tepelene, i giannizzeri turchi che
pian piano marciano verso Vienna dopo la caduta di Costantinopoli,
i monasteri ortodossi nascosti nelle valli dei Rodopi, il Kossovo
e i caschi blu, i massacri di una guerra assurda di qualche anno
fa e altre mille storie di questa terra che non ha mia conosciuto
una vera pace.
La nostra meta, Voskopoja, è nascosta dai primi rilievi
che raggiungiamo la sera, fermandoci presso laia di una
casetta dallaspetto semplice, ma curato, imbiancata di recente
e con una staccionata di legno allegramente colorata. Ci accoglie
con un sorriso una contadina appena tornata dal pascolo dove ha
recuperato le sue 12 vacche e ci fa segno di entrare nella piccola
corte della sua casa. Con laiuto del nostro vocabolario
facciamo un po di presentazioni, spieghiamo da dove veniamo
e dove vogliamo andare e questa volta accettiamo lospitalità,
ancora una volta gentilmente offertaci, di un letto più
comodo dei nostri materassini.
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La
mattina dopo ci viene offerta la solita colazione a base di uova,
pane, yogurt e caffè turco, poi cerchiamo di ricambiare
offrendo una piccola somma che viene accettata solo dopo molte
insistenze e solo perché date con lintenzione di
pagare i libri di scuola dei due bambini della contadina.
Finalmente nel pomeriggio raggiungiamo Voskopoje dopo una piccola
sosta sulle sponde di un lago dove una mandria di vacche pascolava
tranquilla e diffondeva nellaria un incredibile e musicale
concerto di campanelli che sembrava una raga indiana suonata al
sitar. Delle 24 chiese di un tempo ne rimangono solo 8, sparse
tra i campi e le case di questo grosso villaggio dove i covoni
di paglia e i muli convivono con i fuoristrada e i primi alberghetti
visti da quando abbiamo lasciato Berat.
Con un furgon, il giorno dopo ci dirigiamo a Korce, la cittadina
più importante verso il confine macedone per piombare in
mezzo ad un animato bazar, in una confusione piacevole, alla quale
però non eravamo più abituati e poi, allontanandoci
dalla città, un altro spettacolo di altri tempi; il mercato
di bestiame con pecore, capre, muli, asini, cavalli e vacche tra
la polvere sollevata dai carretti, tra le animate contrattazioni
dei mediatori.
Arrivati a Tirana ci rimane qualche ora per visitare la città
per proseguire poi per Durazzo dove il traghetto, nella tarda
serata, ci riporterà in Italia. Una passeggiata per il
centro, unocchiata alla moschea di Ethem Bey, la statua
equestre di Skanderbeg con accanto la sventolante bandiera scarlatta
dellAlbania e poi larrivo alla stazione ferroviaria,
lungo il moderno viale di Zogu I corredato di agenzie di viaggio
e bar occidentali dove non si riesce più a trovare un caffè
turco. Ci accoglie un grande androne quasi deserto dove, dietro
a due finestrelle protette da una grata a maglie larghe siede
un impiegata a cui chiediamo gli orari e il biglietto per Durazzo.
Questa gentilmente ci dice che partirà alle 18.30 e ci
consegna un piccolo biglietto di carta per lirrisoria cifra
di 70 lek, 30 centesimi di euro, che ci permettono di fare i 40
km che ci separano dal nostro imbarco. Quando chiediamo da che
binario parte, limpiegata sorride e ci risponde in italiano:
cè solo un binario!. In re altà
ci sono due binari che fanno da sponda a una lunga pensilina,
occupati nella parte iniziale da alcuni vagoni in cattive condizioni
che, speriamo, non siano i nostri. Più avanti un altro
treno aspetta i pochi viaggiatori che scelgono questo sistema
di trasporto ormai soppiantato dai bus e dai furgon, più
cari, ma sicuramente più veloci. Tutti i vetri delle carrozze
sono stati colpiti da una pietra che ha incrinato il cristallo
in vari punti, ma i sedili interni non sono più sporchi
di un treno regionale italiano e, anche se linsieme non
dà lidea di efficienza, il treno parte e arriva a
destinazione con cronometrica precisione, nonostante lattraversamento
di periferie degradate, di fiumi ridotti a fognature e relitti
di materiale rotabile abbandonato lungo tutto il percorso; un
paesaggio comune, purtroppo, in ogni paese del terzo
mondo.
Il giorno dopo, sullaltra sponda del mare, in un paese del
primo mondo, lEurostar in partenza da Bari per Torino, subirà
un ritardo di 35 minuti senza una ragione apparente.
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